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Pietre autentiche in un mondo falso

Pietre autentiche in un mondo falso

Mio padre si sfregava le perle sui denti. Una sensazione rasposa gli indicava l’origine. Carbonato di calcio, coltivate. Sistemi rudimentali ma efficaci che gli venivano direttamente da Plinio. Tante cose nel mondo della mia infanzia venivano da un passato lontano. Le nostre mamme (ormai una vita fa) ispezionavano a colpo d’occhio la freschezza degli alimenti al mercato. Usavano mille espedienti per testarne empiricamente la qualità. E a casa forse non si mangiava bene?

 

 

 

Provate a chiedere oggi dettagli tecnici su una Smart TV all’incaricato alle vendite in un megastore: sbufferà irritato. Oggi c’è un solco tra chi produce e chi compra, tra chi parla e chi ascolta. Chi acquista è in corsa frenetica. Chi vende spesso non sa molto di ciò che vende. Non vuole sapere molto di più o, peggio, crede di saperne abbastanza. Vedo, nella pratica del mio lavoro, esaurire la comunicazione in un laconico carteggio unidirezionale. Un amico gioielliere mi racconta: “Quando venivano a comprare un gioiello si trattenevano ore ed ore. Mio padre officiava un rito di amore per le donne che avrebbero ricevuto il dono”.

 

 

 

Tempi che cambiano. Magari sarebbero ancora gradite più informazioni circa le caratteristiche delle pietre preziose e dei gioielli. Ma, senza l’arte affabulatoria del padre del mio amico, poi alla fine si taglia corto: “Dammi un certificato, scrivi un report, dichiarami qualcosa di scritto da far vedere in negozio”. Insomma, un po’ di carta per accontentare i rivenditori a tacitare i consumatori. E per lavarsene le mani.

 

 

È vero, oggi le cose me le spiega la rete. Forse questo vale per le Smart TV, ma i gioielli chi me li spiega? E come? Li avete visti anche voi quegli eccentrici, goffi e autoreferenziali fogliettini (che vengono chiamati “garanzie”) recanti approssimative rassicurazioni del produttore? L’origine artigianale del gioiello, il peso delle pietre? Ce lo scrivono a mano su un bigliettino. Il gioiello viene presentato per mezzo di una sorta di ingenuo raptus certificatorio in salsa marketing “fai da te”.

 

 

 

No, queste che leggete non sono le parole di un nostalgico dei bei tempi andati (tipo: tutto era semplice e spontaneo, c’era tanto lavoro, l’Italia era leader del gioiello, si mangiava bene e ce volevamo tanto bene). So bene che il mondo dei negozi e dei quartieri artigiani si è contratto ai limiti dell’estinzione. E se c’era chi raccontava bene la storia di un gioiello, pure c’era – come sempre – chi, non sapendolo fare, diceva cose inconsistenti, approssimative, banali.

Eppure si argomentava, si rispondeva. Oggi molti gioiellieri lasciano che a spiegare pietre ed oggetti siano le dichiarazioni fredde contenute nelle belle confezioni dei brand. Basta il nome, basta il certificato. Più che soddisfare la curiosità del pubblico, mi pare che lo si voglia piuttosto zittire, con supponenza più che con documentata autorevolezza. Ma un bel certificato serio, mettiamo d’un diamante, non zittisce un bel niente, semmai stimola la riflessione, provoca dibattito e comparazioni, induce ad approfondimenti. L’analista rileva titolo e capitoli di quell’avvincente racconto che ogni gemma proietterebbe sullo schermo se avesse avuto la possibilità di montare video. Ma in questa sintesi estrema si portano freddamente agli occhi del consumatore solo alcuni numeri e qualche giudizio. Dove finisce tutto il resto? Perché non si commentano i certificati?

 

 

 

E invece io amavo quei professori di biologia del liceo che dalla chimica del DNA arrivavano a parlare della vita; dai numeri freddi ti scaraventavano nell’esperienza di ogni giorno. Amavo parlare e amavo che mi si parlasse. Ma questa è poesia, diciamolo chiaramente. Il fatto è che oggi non abbiamo tanto interesse a raccontare o ascoltare storie. Abbiamo appaltato i racconti alle agenzie di marketing. E senza più riferimenti dubitiamo di tutto. La nostra vita quotidiana è spesso costituita da esperienze non autentiche, circondata da doppiogiochismo, opportunismo, machiavellismo. Cartelle pazze? O devo pagare?

 

 

 

Non siamo sicuri di cosa diavolo pensi il nostro vicino, il nostro collega, il nostro familiare; la TV celebra una sorta di vita parallela, i reality sono irreali e passiamo ore a guardare dei cuochi aspirando dal cellofan i pop corn. I politici possono serenamente negare quanto dichiarato la sera precedente. Siamo angosciati dalla quantità di espedienti messi in atto dalla società in cui viviamo in continua deroga ai principi morali, all’onestà, alla trasparenza, alle virtù. E scivoliamo nel cinismo perché stentiamo a concedere ancora la nostra fiducia. Con tante maschere non abbiamo più modo di riscontrare le facce vere.

Ed ecco che scattano gli anticorpi. Se sono me stesso, se uso parole mie voi continuate a dubitare? Ed allora io certifico. Se tutto è indistinto creiamo autorità riconosciute che garantiscano l’autenticità. E’ un riflesso condizionato che ci induce ad appaltare la veridicità non solo dei preziosi ma di tutti gli aspetti della nostra esperienza quotidiana (cibo biologico, cicli produttivi, sicurezza sul lavoro, impatto ambientale, smaltimento rifiuti e mille altri prodotti e servizi). Non possiamo più ricavare esperienze dirette dalla nostra vita di tutti i giorni. Non ci troviamo più in un insieme di tante certezze dalle quali si debbono isolare pochi truffaldini. Ci troviamo in un reticolo indistinto di tanti presunti falsi dai quali differenziarci con certificati, dichiarazioni, attestati di garanzia. Sappiamo ancora parlare senza carte?

 

 

Questo post è stato originariamente pubblicato su Trasparenze News il 31/03/2017.

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